Episodio 3 | Dialoghi sull’impresa sociale

L'impresa sociale e il suo ecosistema per lo sviluppo sostenibile

di Erika Mattarella | Liberitutti scs

Civica, generativa, inclusiva e solidale, l’impresa sociale sottintende per propria costituzione una scala valoriale che la definisce non in termini quantitativi, ma innanzitutto qualitativi. In altre parole, tutto ciò che siamo più comunemente abituati ad associare alle iniziative imprenditoriali nell’era della globalizzazione, dalla smaterializzazione del lavoro, alla delocalizzazione della produzione, alla massimizzazione dei profitti e alla normalizzazione delle specificità culturali delle proprie reti di relazioni, viene rovesciato nel concetto di efficacia di questo nuovo attore economico.

Non sorprende, dunque, che per la maggior parte delle imprese sociali assuma una rilevanza strategica individuare il proprio ecosistema di riferimento e ragionare in una prospettiva di analisi dinamica del contesto sociale e geopolitico in cui vanno ad innestare le proprie attività. Nella grande varietà di settori economici in cui si radicano esperimenti di questo tipo, risulta impossibile tracciare ad oggi una descrizione tipo dell’habitat perfetto per il loro sviluppo. Proprio per questo, i luoghi dell’impresa sociale ne raccontano sempre un pezzo di storia, determinandone in maniera ineludibile gli obiettivi. Sempre più le periferie stanno diventando il “campo d’azione” di soggetti e pratiche d’innovazione capaci di attivare processi di rigenerazione e di potenziamento delle risorse locali, contrastando fenomeni di impoverimento e di estrazione del valore (Giovanni Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, Bologna, 2015, Il Mulino).

Liberitutti ha scelto questo tipo di contesto urbano come proprio “brodo di coltura” (Carlo Borzaga, Francesca Paini, Buon Lavoro. Le cooperative sociali in Italia. Storie, valori ed esperienze di imprese a misura di persona, Milano, 2011, «Altraeconomia»), dove ai fenomeni legati alle tensioni sociali, alle difficoltà di integrazione e alla mancanza di stabilità economica si accompagnano anche un ampio spazio di libertà progettuale, una reale posizione di sussidiarietà rispetto alle agli enti locali e la certezza di investire nel benessere di comunità che poi rientreranno in gioco in termini di capitale sociale del futuro.

In particolare, Torino negli anni ’90 si è offerta come campo di sperimentazione per una serie di pratiche di rigenerazione urbana volte a sviluppare un percorso di recupero che non riguardasse esclusivamente le architetture urbane e le infrastrutture, ma che considerasse parte integrante del processo di rinnovamento anche la ricostruzione di un tessuto sociale frammentato.

La partecipazione allargata della cittadinanza al processo di rifunzionalizzazione di intere aree lasciate senza identità da fenomeni legati alla crisi del settore industriale, oltre che alle nuove ondate migratorie, ha dato i suoi frutti grazie ad una visione articolata su grandi piani di investimento come il programma URBAN e il Programma Speciale Periferie.

Da questo tipo di iniziativa pubblica, dunque, è emerso il bisogno di ingaggiare una relazione più diretta fra istituzioni e cittadini. Così, fungendo da membrana connettiva del tessuto urbano, le imprese sociali hanno dimostrato di poter svolgere un ruolo in crescita non solo in termini di offerta di servizi, agendo come fornitore dalla Pubblica Amministrazione, ma anche di mediazione sul fronte della coesione sociale e conseguentemente dello sviluppo economico.

Attraverso una nuova concezione di formazione e accompagnamento aziendale nell’ottica del learning by doing, accompagnata alla sperimentazione di reti virtuose di commercializzazione, sono stati avviati meccanismi di apprendimento e cambiamento organizzativo anche all’interno della stessa impresa sociale; un modello democratico di valorizzazione delle competenze esistenti e delle individuali intraprendenze da cui sono scaturiti modelli di scaling inediti, capaci di generare risorse e competenze anche a favore di altri soggetti (utenti dei servizi, abitanti del quartiere, referenti istituzionali, ecc.).

Partendo da questo tipo di analisi, Liberitutti si è concentrata soprattutto sull’area nord della città, in un contesto che soffre di emergenza abitativa, caratterizzato da alti tassi di disoccupazione  e da difficoltà d’integrazione tra vecchi e nuovi cittadini, oltre che tra abitanti stabili e abitanti temporanei. Dai primi dieci anni di esperienza del territorio nascono i Bagni Pubblici di Via Agliè, che si costituiscono come Casa del Quartiere di Barriera di Milano, un luogo di protagonismo della società civile incentrato sul concetto di “pluri-identità”, in grado di accelerare la rete sociale secondo criteri collaborativi e promuovere opportunità culturali come occasioni di capacitazione e inclusione. Su questo know-how si è poi costruito il progetto Glocal Factory, oggi in fase di start up, che entra maggiormente nel vivo del potenziale imprenditoriale della comunità, soprattutto nell’ambito dell’artigianato 2.0, attraverso la condivisione di competenze, spazi, strumenti e innescando nuovi modelli di partecipazione economica.

In una logica di sviluppo place-based, infatti, l’ecosistema dell’impresa sociale ruota intorno ai tre assi che ne definiscono la natura ovvero una missione esplicita di interesse collettivo, un assetto di governance inclusivo e la capacità di dar vita a processi produttivi stabili e continuativi (Borzaga C., Galera G., Franchini B., Chiomento S., Nogales R., Carini C. – a cura di , Social Enterprises and their Ecosystems in Europe. Comparative synthesis report, Luxembourg, 2020 Publication Office of the European Union).

Leggi anche | Episodio 2 “Dialoghi sull’impresa sociale”